Il testo che segue è
tratto dal sito web della rivista "30Giorni - Nella Chiesa e nel
mondo"
ottobre 2008 -
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da "30GIORNI" - Ottobre 2008
«È semplice la
strada che porta al Signore»
Don
Andrea Ghetti, prete scout nella Milano del dopoguerra e della
contestazione, ripeteva spesso questa frase ai suoi ragazzi. È stato
una delle figure più importanti dello scoutismo italiano. Innovativo
e insieme fedele alla tradizione
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di
Giuseppe Frangi
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Don
Ghetti in un campo scout
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Il giorno più importante della vita di don
Andrea Ghetti, detto Baden, fu quel 16 agosto 1964. A Castel Gandolfo, il
“suo” papa, Paolo VI aveva ricevuto i ragazzi dell’Asci,
l’organizzazione degli scout italiani. L’occasione era il ventennale della
ricostituzione, dopo l’abrogazione, imposta dal fascismo, dell’associazione.
Ma il Papa, che da arcivescovo di Milano aveva seguito e sostenuto il lavoro
infaticabile di don Ghetti, affidandogli una delle parrocchie più importanti
della città e mettendolo alla direzione del giornale diocesano, andò molto al
di là dei convenevoli. Paolo VI, infatti, tracciò un profilo dell’essere
scout che sostanzialmente coincideva con l’idea per la quale Baden si era
battuto per tutta la vita.
Erano anni
complicati. Le tradizionali leve educative a disposizione della Chiesa si
rivelavano drammaticamente sempre più inadeguate. Il Papa ne era lucidamente
consapevole. «Quanta gioventù, passando dall’adolescenza alla maturità
giovanile, spezza la linea della propria formazione», disse. Poi Paolo VI fece
questa amara ammissione: «Perché vi confideremo, carissimi giovani, che una
delle impressioni più amare che ci viene dall’osservazione della vita
contemporanea è quella delle immagini di tanti volti tristi, emaciati, stanchi,
beffardi». Invece i volti dei ragazzi che gli stavano davanti, i ragazzi di don
Ghetti, erano un segno di speranza: «Sappiamo la franchezza e la semplicità
con cui vi mostrate per quello che siete, credenti e cattolici… gente che ci
crede». Per poi concludere: «Bravissimi Rover, autentici, sorretti da intatta
energia spirituale, morale, fisica e professionale: giovani fatti per pregare,
per pensare, per amare, per lavorare, per combattere, per servire».
Baden, com’era
nel suo stile, con l’impeto appassionato che lo contraddistingueva, prese
carta e penna per scrivere un articolo per la rivista da lui voluta, Rs-Servire,
e ribadire che quel “discorsetto” di Castel Gandolfo è «fondamentale per
la storia dello scoutismo». «Un discorso che in una chiarissima visione
abbraccia il dramma della gioventù moderna… e la stampa cattolica non l’ha
neppure pubblicato», annota don Ghetti. Poi, rivolgendosi ai suoi ragazzi,
spiega che con quelle parole del Papa non è più «lecito a nessuno fare uno
scoutismo abborracciato, provvisorio e improvvisato: siamo forza viva della
Chiesa, per essere – in umiltà – strumento di bene fra i giovani».
Un nuovo
inizio: i Rover
Ma chi erano
quei giovani che il Papa aveva davanti quel pomeriggio a Castel Gandolfo? Erano
quelli per cui don Ghetti aveva combattuto la sua battaglia. Rover, nel
linguaggio scout, indica la fascia di età tra i 17 e i 25 anni, un’età che
tradizionalmente si riteneva non più di pertinenza dell’esperienza formativa
scoutistica. «I Rover non esistevano», ricordò Giulio Cesare Uccellini, detto
Kelly, uno dei pionieri del movimento di Robert Baden-Powell in Italia. «Il
Rover era da inventare. Don Ghetti, per la sua esperienza, per la sua vita
travagliata, per il suo coraggio, per il suo temperamento fortissimo era
l’uomo che poteva creare questo personaggio Rover. Si trattò di aprire una
strada che non c’era».
I primi passi di
questo “nuovo inizio” sono datati all’immediato dopoguerra. Don Ghetti,
che durante il fascismo, dopo lo scioglimento dell’Asci imposto dal regime nel
1928, aveva dato vita all’esperienza clandestina delle Aquile randagie, non
aveva perso tempo. Senza temere confronti anche polemici con le strutture
ufficiali dell’Associazione, a Milano aveva raccolto un gruppo di ragazzi, e
dal 1947 aveva lanciato l’idea di una “terza Branca” dello scoutismo che
continuasse la vita delle altre due, quella delle Coccinelle e dei Lupetti
(dagli 8 ai 12 anni) e quella delle Guide e degli Esploratori (dai 12 ai 16
anni). Le riunioni del Clan – l’unità che riuniva i Rover – si tenevano
in uno scantinato di San Giorgio al Palazzo. «Si sentiva che qualcosa nasceva
con freschezza», annotò Baden. La prima uscita fu paurosamente avventurosa:
una discesa dell’Adda su vecchi canotti americani, conclusasi con un
salvataggio fortunoso in una delle gallerie in cui venivano convogliate le acque
del fiume per alimentare una centrale elettrica. All’uscita i testimoni,
increduli, dissero che senz’altro per salvare quei ragazzi doveva essere
intervenuta la Madonna della Rocchetta, dal nome di una chiesina che dominava
Porto d’Adda. In quel momento don Ghetti aveva trovato il nome del nuovo Clan:
il Clan della Rocchetta. Poi, con quell’autorevolezza venata della grande
ironia di cui era capace, disse: «Quanto ai colori del foulard, scegliete
quelli che volete. Basta che siano il verde e il nero».
Fu Verdenero
anche il nome del foglio che subito iniziò le sue pubblicazioni, per mettere «a
fuoco le esigenze e speranze giovanili». Anche in Italia era decollato il
roverismo. Ma non erano certo finite le battaglie di don Ghetti, che cercava di
tenere sempre i suoi ragazzi con i piedi per terra: «Lo scoutismo fa a noi
preti molti doni insensibilmente: uno di questo è il senso del concreto»,
diceva. Nel 1949 li lanciò in un’impresa a sostegno dei mutilatini del suo
amico don Carlo Gnocchi. Inventò le Frecce rosse della bontà, un
“pellegrinaggio d’amore” su venticinque moto “Guzzine” (offerte dalla
casa produttrice) attraverso i luoghi d’Europa segnati dalla guerra. Perché i
mutilatini sono «quelli per cui la guerra continua». I fondi raccolti vennero
tutti affidati a don Gnocchi.
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la
lettera di papa Paolo VI in occasione dell’onomastico
di don Ghetti del 30 novembre 1963; in alto, la
letteradel cardinale Giovanni Battista Montini inviata a
don Ghetti in occasione dell’onomastico del 30
novembre 1960
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La
fine di un mondo
Ma gli anni dei
confronti più aspri sono gli anni Sessanta. È allora che in Baden si fa più
acuta la consapevolezza della crisi delle varie forme organizzative. Scriveva già
nel 1956 su Verdenero:
«L’organizzazione è lo scheletro che deve sostenere tutto il resto; è
talora un po’ schematico ma ha il suo valore. Poi occorre amare, pregare,
soffrire. Il risultato è Suo, tutto Suo. È presunzione voler cogliere i
risultati: noi abbiamo spesso una fretta che non corrisponde ai piani del
Signore».
E ancora: «Ogni
nostra azione “da Lui” prenda inizio e “in Lui” finisca». Poi lancia il
suo rimprovero contro la prassi vigente troppo spesso tra gli scout: «Nel campo
educativo sono troppi quelli che si piccano di psicopedagogia e poi si perdono
se devono giocare per un’ora con i ragazzi».
Nel 1962 attacca
il personalismo che, secondo lui, starebbe minando il movimento: «Occorre
creare il senso dell’associazione per uscire dal provvisorio e dal
personalistico (mi dà fastidio quando sento i Clan catalogati dal nome del capo
Clan)», scrive al commissario regionale dell’Asci, Giovanni Anderloni. E
insiste: «Non si sente lo scoutismo come dono alla persona».
Intanto con i
suoi ragazzi sta sempre sulla frontiera. Inventa la Buona azione di Natale, un
gesto di caritativa diverso ogni anno. E nel 1963 lancia la missione di
Partinico, nel cuore della Sicilia. Sono bivacchi aperti, per incontrare i
giovani in quelle zone colpite dal banditismo. Partono a mani vuote, affidandosi
alla «non scontata bontà di chi avremmo incontrato». Ma quel gesto attira
l’attenzione anche di personaggi famosi. Giulio Andreotti, allora ministro
della Difesa, mise a disposizione dei ragazzi che partecipavano alla missione un
bimotore dell’aeronautica militare per il viaggio da Milano a Palermo. E alla
fine ci fu anche l’incontro con Danilo Dolci, il grande sociologo triestino,
anima della non violenza italiana, che aveva scelto di vivere a Partinico.
Il 9 ottobre di
quello stesso anno avviene la sciagura del Vajont. Baden, che dal 1959 il
cardinal Montini aveva nominato parroco di Santa Maria del Suffragio, coordina
gli aiuti della diocesi ambrosiana. In prima linea ci sono i suoi Rover della
Rocchetta, chiamati all’allestimento del cimitero di Fortogna.
Quell’idea
dello scoutismo
E così si
arriva a quel 1964. Da un anno sul trono di Pietro c’è il vescovo che lo
aveva sempre sostenuto e che lo aveva voluto direttore de Il
Segno, il nuovo giornale diocesano che
prendeva il posto di tutti i fogli parrocchiali. «Il Papa è un cuore amico»,
ripeteva sempre don Ghetti: «C’è in lui un’immediatezza di bontà,
un’intuizione di bene». Lo scoutismo italiano è attraversato da una febbre
di rinnovamento che Baden osserva con sospetto. Scrive in quell’anno su Rs-Servire:
«La mia azione è di impedire scivolamenti fuori dallo scoutismo di
Baden-Powell, ma mi accorgo che anche a Milano è la stessa cosa. Non cerchiamo
le cose grandi, ma la semplice tessitura dello scoutismo… si dice che
Baden-Powell è superato: al suo posto si mettono povere cose vane: ora capisco
perché la Gs ha via libera: è ormai l’unica forma che cerca un metodo».
L’amore di don
Ghetti per lo scoutismo è un amore totale. È una dedizione che non fa sconti a
sé stesso ma neanche agli altri responsabili. Se da parroco conosciamo un
sacerdote comprensivo, aperto a tutti, da prete scout conosciamo invece un uomo
così appassionato del destino dei suoi giovani da trasformarsi in prete
battagliero. Nel 1963 era stata lanciata l’idea di cambiare il colore della
divisa. Baden è fermamente contrario e per questo scrive una lettera a tutti i
partecipanti lombardi al Consiglio generale dell’Asci, il 1° maggio. «Questo
penso sia il tuo compito: difendere uno scoutismo serio, profondo: fatto di
piccole pietre che il genio di Baden-Powell ci ha indicato. Gli aggiornamenti
sono sempre peggioramenti ma poiché lo spirito ha bisogno di essere sostenuto
dalla forma è necessario, come allora, salvare le forme. Così è la divisa, fu
concepita per la vita nel bosco, del Campo delle strade, non può divenire la
tenuta per le processioni… Il cardinal Siri ha detto a dei capi: “State
attenti a modificare le uniformi!”». Due anni più tardi, quando l’Asci
nazionale decide per il passaggio alla divisa grigia, Baden mantiene quella
tradizionale color caki dei suoi scout di Milano sud. Con la sua consueta ironia
commenta: «Lo scoutismo è diventato vecchio per questo ha scelto la divisa
grigia».
Ma sono gli anni
della grande crisi del mondo giovanile. La Chiesa perde il contatto con i
ragazzi: don Ghetti lo sa bene, assistendo alla diaspora dai suoi due punti di
azione privilegiati, di parroco e di assistente scout. Intanto a Milano nel 1966
esplode il “caso Zanzara”.
Con lucidità commenta: «Ideologie, concezioni di massa, mezzi di suggestione
collettiva (stampa tv radio): l’uomo è portato a pensare di meno e vive di
stati d’animo, non di pensiero». Poi, nell’estate dell’anno successivo,
agli abituali appuntamenti estivi di catechesi al campo estivo dei ragazzi della
Rocchetta, torna sull’argomento: «Il problema religioso dei giovani. Essere
aperti alla parola di Dio e farla diventare la misura della propria vita.
L’esistenza non è mio possesso, da qui il concetto di dipendenza da un altro
che esiste completamente. Io ho come misura l’infinito di Dio; conseguenza:
Dio non è un limite all’uomo, anzi solo nel rapporto con Dio l’uomo non è
abbandonato ai suoi istinti e ai suoi sensi». E poi una raccomandazione finale:
«Nel Clan dobbiamo rappresentare il volto della Chiesa».
La forza di don
Ghetti è tutta nell’umiltà con cui aderisce alla storia incontrata, quella
dello scoutismo. «Ho creduto e credo nello scoutismo come “via semplice e
gioiosa” per arrivare al Signore», scrive. Con la forza di questa semplicità
si fa spavaldo anche nell’affrontare i tanti conflitti e le diaspore di quegli
anni. Nel 1969 un gruppo di Scolte (appartenenti al ramo femminile dei Rover)
abbandona la sua parrocchia. Lui annota: «Ragazze senza idee chiare e legate
alle proprie posizioni, non del tutto sincere. Forse è bene una
chiarificazione, anche se dolorosa, potrà servire per il domani. Bisogna sempre
ricominciare».
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Don
Ghetti in occasione del solenne ingresso nella
parrocchia di Santa Maria del Suffragio, a Milano, il 4
ottobre 1959
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Gli
scout sulla luna
Eppure sono anni
di gloria pubblica per il modello formativo dello scoutismo: c’è un passato
da seguaci di sir Robert Baden-Powell, per esempio, nel curriculum
dei due astronauti, Neil Armstrong e Edwin E. Aldrin, che quell’anno sono i
primi uomini a mettere piede sulla luna. Ma Ghetti non è tipo da cedere ai
trionfalismi. Ha confronti accesi con Riccardo Lombardi. Si dice contrario alla
fusione di Asci e Agi che darà vita all’Agesci nel 1974. Ma alla fine accetta
la decisione. Monsignor Giorgio Basadonna, piombato apposta da Roma per
incontrarlo, raccolse le sue riserve: «Nell’Agesci appena nata in una forma
ibrida temeva che la fede non fosse ben vissuta. Sosteneva che eravamo troppo di
sinistra, di estrema sinistra, ed era vero che in quell’epoca c’erano
sbandamenti di estremismo».
Sul fronte della
parrocchia, proprio lungo il trafficatissimo corso XXII Marzo su cui si affaccia
la chiesa, il 17 aprile 1975, durante un assalto alla vicina sede dell’Msi,
resta ucciso Giannino Zibecchi. È uno dei fatti che insanguinano gli anni di
piombo milanesi. Don Ghetti raccoglie lo sgomento dei suoi fedeli. Ma poi con la
consueta franchezza scrive su Il Segno:
«Bisogna riconoscere che ben poco si fa nelle nostre parrocchie per i giovani».
Il suo è sempre
un punto di vista paterno ma lucido e consapevole della drammaticità del
momento. Non si nasconde che un mondo è finito, che i giovani che ha davanti
sono figli di una rivoluzione antropologica, impermeabili ai tradizionali
richiami morali. Ma è ben lungi dal fare loro sconti e dall’idealizzarli: «Le
posizioni ideologiche penetrano nelle coscienze di questi giovani», annota nel
1976. «Alcuni ragazzi son chiusi nel loro mondo. Altri svaniti dietro al gioco
sentimentale incipiente… mancano di idee-forza. Ma chi si è preoccupato di
alimentare le loro intelligenze? C’è un altro mondo…».
Più sente
acuirsi questa distanza tra i giovani e la Chiesa, più confida nello scoutismo
come proposta capace di affascinarli. Per questo è sempre al loro fianco, trova
sempre il tempo di partecipare ai campi, di fare loro le sue catechesi. È
attento alla vita associativa sin nei minimi particolari. Ma ha sempre ben
chiaro qual è lo scopo: «Noi siamo sulla strada alla sequela di Cristo. La
strada è il simbolo del nostro procedere verso l’eterno». Una strada,
naturalmente, lastricata di concretezza: «Il fine dello scoutismo è di aiutare
a essere uomini liberi, non condizionati o pianificati da una pesante azione di
livellamento intellettuale. Il Rover è coronamento dell’esperienza scout: è,
con tensioni valide e profonde, un modo di concepire la vita, prima di essere
struttura, organizzazione, metodo».
La sua idea di
scoutismo è appoggiata in modo totale alla storia della Chiesa. Fa fatica, ad
esempio, a pensare a uno scoutismo laico, esperienza per altro in atto in tutta
Europa, Italia compresa. E nulla meglio di queste righe, scritte nel 1957 per la
rivista Ut unum sint,
spiegano quale fosse il suo vero orizzonte: «Lo scoutismo è un ordo
come quello benedettino, intervenuto in un’ora di grande sfacelo di
istituzioni centenarie. Esso inserì il cristianesimo nel mondo barbaro e trasse
i barbari alla scoperta di Dio… Lo scoutismo è un ordo
posto nel cuore di una civiltà indifferente».
Un ordo
da vivere e costruire, sulla strada, fianco a fianco con i suoi ragazzi. Sino a
quell’ultimo viaggio fatale, in Francia, durante un campo estivo, dove un
incidente automobilistico nei pressi di Tours gli costò la vita. In un bel
libro di quegli anni, Scautismo e santità,
si legge: «Il vero scout ha come motto: “Riposerai altrove”, perché sa,
come dice un bel verso di Verhaeren, che “tu devi morire mentre sei in
cammino”».
(Ha
collaborato Vittorio Cagnoni)
da
"30Giorni", ottobre 2008
http://www.30giorni.it/it/articolo.asp?id=19460