esperienze di Scautismo
Malgrado Tutto
Il 1981 venne dichiarato anno degli handicappati, e molto se ne parlò anche tra gli scout. Erano mancate le notizie di esperienze pratiche; la rivista "Esperienze & Progetti" chiese allora ad Enzo Poltini i suoi ricordi e le sue esperienze.
A ricordo dello Scautismo M.T. (una sigla internazionale che indica le parole francesi "Malgré Tout", in italiano Malgrado Tutto), qui di seguito riportiamo e offriamo una parte dell'articolo che allora fu pubblicato sulla rivista: l'invito è di riconsiderare queste esperienze senza pregiudizi ma con una sufficiente apertura mentale...
Per favorire la "leggibilità", la prima parte dell'articolo originale (introduttiva) più centrata sulle ragioni d'essere dello Scautismo Malgrado Tutto, è stata qui trascritta a fondo pagina. La seconda parte (in grassetto) - qui riportata all'inizio - affronta invece aspetti più pratici ed esperienze concrete.
* * *
«Una considerazione sulle Unità «specializzate» [M.T.] della Branca di Estensione di un tempo.
Ci
sembrò la scelta più seria. Nessuno di noi voleva «ghettizzare» i ragazzi
handicappati come qualcuno, forse senza conoscerci bene, allora pensò e
scrisse.
Avevamo
scelto di fare scautismo vero, perché ci eravamo convinti che quei ragazzi «Malgrado
Tutto» potevano, sapevano e volevano realizzare il loro progetto di vita. Anzi,
proprio la vita scout li avrebbe aiutati a superare il primo e più grande loro
problema: quello di «accettarsi» di «volersi bene» così com’erano. E
questo li aiutò davvero e li fece capaci poi di farsi accettare e di voler bene
a loro volta (penso ai tanti miei «ex M.T.» con i quali sono ancora in
contatto, ormai uomini, sposati, con figli, con professioni e interessi).
Ma
ogni handicap poneva problemi specifici: chi non vedeva o non sentiva; chi non
parlava; chi non poteva muoversi facilmente. Gli spastici soffrivano gli sbalzi
di temperatura e la vita in tenda dava continui problemi, come l’utilizzo di
fuochi; i poliomielitici soffrivano di insensibilità agli arti colpiti:
avrebbero potuto scottarsi o congelarsi senza accorgersene subito; avevano gli
apparecchi ortopedici in stato di ... "manutenzione permanente" e fare
giochi movimentati avrebbe potuto esporre al rischio di fratture,
pericolosissime per loro e difficilissime da recuperare, e così via.
Ma
loro, volevano giocare e dormire in tenda e cucinare con il fuoco, come tutti
gli scouts. Ed allora dovemmo (e fu molto stimolante) riadattare il metodo. Fare
giochi di movimento nei quali i ragazzi si sarebbero mossi il meno possibile,
facendo muovere ... le cose o le situazioni; escogitare nuove tecniche di «presa»;
dare più sicurezza nei movimenti (tutti abili nuotatori, per ragioni di terapia
di recupero, i nostri campi ebbero sempre laghi o mare a disposizione ed i
giochi, gare, imprese con barche e zattere, avrebbero fatto invidia a molti
Riparti Nautici). Se era difficile trasportare una pentola dalla cucina al
tavolo, per via delle stampelle, ci fu chi escogitò un tavolo circolare con un
bilanciere centrale che trasportava la pentola dal cuoco in cucina ai singoli
commensali seduti ai loro posti, e che la riportava vuota alla cucina per la
sostituzione delle portate. Questi sono esempi e ce ne sarebbe da scrivere un
libro ...
Così i ragazzi cominciarono a rassicurarsi ed a distinguere.
Capirono
che nel «loro scautismo» era cosa «normale» cadere su un prato rovesciandosi
addosso una pentola d’acqua tenuta in equilibrio instabile, ma sarebbe stato
comunque «anormale» mancare di lealtà; che si sarebbe potuto benissimo non
riuscire a superare la prova fisica del «passaggio alla marinara» ma che si
poteva sostituirla con un’altra altrettanto impegnativa: per esempio, imparare
a camminare nel modo corretto o saper sopportare per i periodi necessari il
tormento di un busto ortopedico rigido; che chi aveva gambe o apparecchi buoni
poteva «andare» a far legna o a prendere acqua e chi aveva mani buone avrebbe
potuto «restare» a riordinare la tenda o a preparare da mangiare ... per Il
bene di tutta la squadriglia! Ecco la complementarietà e la scoperta di essere
«utile» agli altri!
Poi
vollero fare di più: e si poteva incominciare il confronto con gli altri.
Andammo a fare un campo nel Canton Ticino e si fece amicizia con degli scouts della Svizzera Francese: non avevano mai visto il mare, e l’anno dopo fummo noi ad invitarli a campeggiare insieme all’isola d’Elba.
Quando
al termine del campo si fece una intera giornata in barca a motore ci fu qualche
difficoltà per l’attracco al pontile di ormeggio (eravamo ospiti di una
ex-miniera e c’era appunto l’attracco per il carico del minerale che per noi
fungeva da ottimo trampolino!): mentre gli scouts svizzeri dovettero essere
trasbordati, data la loro imperizia natatoria, malgrado l’efficienza fisica,
gli «M.T.» dato l’ordine di «abbandonare la nave» lasciati apparecchi e
vestiti, si buttarono gloriosamente da bordo raggiungendo a nuoto la riva:
nessuno di loro in quel momento ebbe soltanto il sospetto, di essere «emarginato»
...
Poi
vennero i Campi di San Giorgio: noi non potevamo competere nelle corse ed in
certe battaglie allo scalpo francese, ma una Squadriglia di Mutilatini vinse a
Monza la gara di segnalazione (con le bandierine legate ... ai moncherini); e
quando si scopri che si sapeva cantare bene e suonare meglio (un ragazzo polio,
ora sposato con due figli, finì addirittura in tournée con il gruppo americano
di «Viva la gente») vincemmo un paio di gare di canto e diventammo il gruppo
che spesso si andava a cercare per animare I fuochi di bivacco.
L’integrazione
era avvenuta e non c’erano più problemi nel confrontarsi con gli altri scouts.
Ecco, non so se tutto questo sarebbe stato possibile se non avessimo fatto le cose con calma, con gradualità, con omogeneità di problemi da risolvere.
Vedo
spesso ragazzi handicappati (frequentemente in modo grave) inseriti in Unità di
ragazzi sani: vedo questi ultimi prodigarsi, a volte, perfino affannarsi intorno
a loro e trascinarli, a volte necessariamente, maldestramente, nel giro e vedo i
parenti degli uni e degli altri, guardare commossi e felici. Ma poi,
all’improvviso, osservo qualche piccolo scout smarrirsi di fronte all’amico
che non riesce a parlargli, che sbavando ed agitandosi scompostamente, gli
chiede, senza essere capito, di aiutarlo a mangiare o ad andare ai servizi ...
E
rivedo lui, il ragazzo handicappato, ritornato di colpo solo, dipendente,
lasciato un’altra volta isolato con il suo problema, in attesa, ancora una
volta, di qualcuno che abbia il coraggio e la capacità di dargli la mano «giusta».
Non
so, lo domando a me stesso ed a tutti:
Era
pronto lui a questo nuovo rifiuto, non voluto, certo, ma presente; sarà
pronto a tanti altri rifiuti di cui la sua vita sarà piena? E noi eravamo
davvero pronti ad aiutarlo?
Sarà
bastato a lui «vedere» gli scouts ed i loro giochi e quando la sua situazione,
il «suo contratto di vita» lo riporterà ancora nella solitudine della casa,
ritroverà ancora questi amici che andranno da lui? O dovrà solo rimpiangerli,
nella sola speranza di rivederli alla prossima volta?
Certo:
anche l’albero tagliato, non è senza speranza, perché dal suo tronco rimasto
può rinascere un fiore (Giobbe). E noi possiamo, dobbiamo fare qualcosa, ma
essere sicuri di poterlo fare nel modo migliore, perché non si può strappare
due volte una vita ...
E
intanto rivedo i miei ragazzi M.T. e quando ci rincontriamo oggi, adulti e
ancora solidamente amici, ritorno a farmi la stessa domanda ed attendo,
sperando, una sola risposta.
Loro,
non hanno «visto» gli scouts ... lo sono stati!»
*
* *
«Parlando
di esperienze — anche se, obiettivamente, penso che la mia sia abbastanza
collaudata nel tempo e nei generi (dal 1946 al 1975: dai Mutilatini di guerra di
Don Carlo Gnocchi, agli «sciuscià» della Città dei Ragazzi di S. Marinella e
poi, via via, ai ragazzi «difficili» di Cesano Boscone, fino all’ultima e più
duratura esperienza con i «motulesi» poliomielitici, paraplegici ed anche
spastici della Pro Juventute) — chiarisco subito di non aver mai affrontato,
volontariamente [...], un settore che, mi sembra, abbia avuto in
questi ultimi anni una accresciuta attenzione anche nell’ambito Associativo:
quello degli insufficienti mentali e degli handicappati psichici o, comunque,
gravi. [...]
Ho,
sinceramente, il dubbio che [...] si scivoli spesso in facile
«demagogia» comoda solo per agitare slogan al momento opportuno, per catturare
superficiali emozioni di massa o interessati consensi di potere, salvo poi, dopo
tanto disquisire, lasciare ad altri i problemi da risolvere: vedi l’abolizione
di Istituzioni specializzate (Istituti, Scuole speciali, Manicomi)... come se
per risolvere una questione, bastasse abolirla invece di ricercare le cause del
cattivo funzionamento e porre i migliori sforzi per correggerla! [...]
In questa trappola, suggestiva ma pericolosa — specialmente in campo educativo — corriamo il rischio di cadere anche noi, come persone e come Associazione: preoccupati di non essere all’altezza della situazione o al passo con i tempi e con le «grandi problematiche sociali» vogliamo rispondere a tutti gli appelli, affrontare tutti i problemi, correre tutti i rischi, scoprendo poi amaramente di non avere le forze o le capacità necessarie. Tutto questo è bello, è nobile, specialmente nei più giovani, ma si rischia di confondere l’avventurismo con lo spirito d’avventura (ad-ventura: prepararsi alle cose che verranno); l’entusiasmo ed il pressappochismo con l’ottimismo (affrontare la realtà considerandola dal lato migliore ed insistere nello sforzo malgrado le difficoltà).
Il nostro impegno educativo, il nostro «onore» (essere meritevoli di stima e di fiducia), — a differenza del discorso politico che si confronta, pena la sua stessa emarginazione, soltanto con la risonanza delle sue tematiche e l’immediatezza dei risultati — si deve misurare, più umilmente, ma certo più concretamente, nella serietà e nella responsabilità del nostro sforzo, consapevole dei propri limiti e delle proprie possibilità anche in termini operativi.
Veniamo al punto.
Non
sono un «tecnico» ed esprimo quindi i concetti come posso: credo che occorra
fare delle distinzioni tra «parole» accettate o rifiutate secondo iI momento,
le sollecitazioni emotive, le strumentalizzazioni politiche. Non a caso, penso,
l’anno 1981 sia stato dichiarato «Anno dell’handicappato» : e mi
spiego.
Parlare di «emarginato» senza prima parlare di «handicappato» e di «disadattato» vuoI dire, a mio parere, non stabilire un rapporto lucido tra cause ed effetti e quindi, non impostare concretamente il problema.
[...]
Mentre l’emarginazione produce sempre l’emarginato, l’handicappato può
essere tale per fatto obiettivo, indipendente dall’atteggiamento degli altri:
può essere «disadattato » senza essere emarginato [...]; sarà
sempre, certamente, un disadattato, se verrà «emarginato» pregiudizialmente.
Nel primo caso, l’intervento educativo fondamentale e primario dovrà partire
dalla persona; nel secondo, l’azione dell’educatore dovrà essere condotta
su entrambi i fronti: la persona e l’ambiente.
Ora, nello Scautismo, fare educazione (quella vera, altrimenti si può parlare d’altro) vuoi dire aiutare il ragazzo in quanto persona (e questo vale soprattutto nel caso di un ragazzo handicappato) a realizzarsi compiutamente e globalmente, senza un modello precostituito di «normalità» (quale? quello dei mass media, dell’efficientismo, del consumismo, del perbenismo?) partendo da ‘una presa di coscienza di ciò che si è e di ciò che si vuole diventare, in base alla propria realtà (carenze, potenzialità) — al fine che si vuole raggiungere (valori di ‘riferimento e di adesione) — ai mezzi possibili per realizzare (= rendere attuale ‘in sé stesso; autoeducarsi) il proprio progetto di vita.
Educare all’ESSERE, più che al FARE, vuoi dire anche educare alla socialità attraverso la consapevolezza che proprio dalle singole «diversità» nasce la «complementarietà»: accettare la propria realtà, e la realtà degli altri come «persone» non vuoi dire quindi rinunciare a modificarle entrambe, ma operare in concreto, come dato di fatto e come elemento di informazione indispensabile per poter costruire in progressione.
Da
una parte quindi l’educatore competente sui problemi da porre ed ottimista sui
risultati da conseguire; dall’altra il ragazzo, consapevole di ciò che può e
vuole fare e volonnteroso di farlo; entrambi concretamente rivolti allo scopo
liberamente scelto.
[...] Quello che mi preme sottolineare è che non si sia presi da «complessi di inferiorità» nei confronti di altri; noi abbiamo un compito ben preciso ed ‘impegnativo: se siamo in grado di fare di più, tanto meglio, ma non illudiamoci e non illudiamo (il che è più grave) di poter fare... sperimentazioni, strada facendo — e sulla pelle altrui — ciò che non siamo PREPARATI a fare: possono esserci motivi di rammarico, certo, ma almeno sarà un discorso onesto, e Dio sa, di questi tempi, che bisogno ci sia di onestà di parole e soprattutto di azioni. [...] ».
Enzo Poltini
In
"Esperienze & Progetti",
n. 36 - settembre ottobre 1981